Il coworking Laby, un progetto pensato per il welfare e le pari opportunità

Diversity |  12 Maggio 2013

Mi viene da piangere

Mi viene da piangere eppure ho appena avuto un figlio. Lui sì, piange, e ne ha tutti i diritti. Ma io? Che diritto ho di piangere, dopo aver avuto un figlio? Quando vedi tutte le pubblicità in TV piene di donne che tengono i bambini in braccio, mica piangono. Sono felici, estatiche. Quando vedi Brooke Logan che fa figli con tutto il cast di Beautiful, mica piange. Qualche volta si vedono le mamme piangere, ma è solo per emozione, dopo che i loro figli hanno fatto qualcosa di prodigioso. Tipo vincere alle olimpiadi. Ma se tuo figlio non ha vinto alle olimpiadi, che piangi a fare?

Eppure le donne piangono quando non riescono ad avere figli e piangono quando ci riescono

Gli ormoni, dicono. Fino a un certo punto, dico io. La maternità è circondata da un alone di leggenda che si abbatte con mille pressioni sulle donne, sia che abbiano figli sia che non ne abbiano. La nostra società, la nostra cultura, vogliono che le donne abbiano figli, ma poi non se ne occupano. Una madre rientra a casa dopo il parto, piena di tutine, vestitini, peluche e scarpine numero 18, si siede sul divano e si chiede dove siano finite la società e la cultura, perché in cucina non le ha trovate, in bagno nemmeno e non sono neppure nel suo vecchio ufficio, o in qualsiasi luogo debba frequentare una neo mamma. Prova a fare un tentativo: esce a fare una passeggiata con il bambino, si siede a un tavolino di un bar e inizia ad allattare. Ma nemmeno lì trova quella società e quella cultura che tanto volevano che lei diventasse madre. Anzi, trova una società e una cultura che la guardano con disappunto perché allatta in un luogo pubblico. Perché la maternità va bene solo se stai chiusa a casa. Per il resto, non è un paese per mamme.

E i papà?

Non è nemmeno un paese per papà comunque, che forse sono messi anche peggio. In Italia infatti, se il concetto di maternità, nel bene e nel male, è ben radicato, quello di paternità non esiste, tanto è vero che l’uomo che si prende cura di suo figlio viene addirittura chiamato “mammo”, ma non padre. Molti papà di oggi vorrebbero crescere i propri figli, godersi le proprie emozioni, prendersi i loro tempi. Ma ancora una volta società e cultura remano contro e li richiamano a produrre una ricchezza di cui loro probabilmente nemmeno godranno.

Alla ricerca della qualità di vita

Oggi viviamo una vita a compartimenti stagni che non comunicano tra di loro. Le donne sono sole con la loro maternità e non hanno possibilità di aggiornarsi professionalmente né confrontarsi con altre donne. Gli uomini sono esclusi da qualsiasi esperienza che non riguardi il lavoro, in primis quella familiare. E, ciliegina sulla torta, la crisi economica esaspera gli animi e mina ancora di più la qualità di vita. Il sistema economico e sociale in cui viviamo non è più sostenibile.

Un coworking che pensa alle persone

Da queste riflessioni, assieme a Stefania Boleso e Silvia Mazzolin, ho contribuito alla nascita di LABY. Uno spazio pensato per offrire alle donne e agli uomini un nuovo modo di vivere e di lavorare. Uno spazio dove interessi personali, vita familiare e lavoro non sono più così inconciliabili tra loro. LABY è coworking, per condividere professionalità, idee e progetti con altre persone, è cokids per sollevare mamme, papà e perché no, anche nonni, dai problemi organizzativi legati alla gestione dei bambini, è benessere per dare alle persone la possibilità di prendersi cura del proprio corpo e del proprio spirito.

In poche parole, LABY è quel posto dove si smette di piangere e si inizia a sorridere, ed è in via Cicerone 4, a Trieste.